Pensiero e opere

Nella visione filosofica di Michelstaedter l’uomo si adatta alla vita perché è indotto a soddisfare i suoi bisogni e i suoi desideri dalla “philopsichìa”, dall’amore della vita, che Michelstaedter chiama anche “Il dio del piacere”. L’irrazionale brama di vivere che per raggiungere il suo scopo inganna l’uomo tramite le illusioni. Illusione è conseguimento del piacere, illusione il soddisfacimento dei propri bisogni, illusione lo stesso perseguimento di un ideale. La philopsichìa provoca attraverso la rettorica una persuasione illusoria, per cui l’uomo crede di poter ottenere quello che cerca fuori di sé: piacere, amore, felicità, in una parola un rapporto soddisfacente con il mondo esterno e con gli altri. E sempre l’amore della vita provoca l’adattamento del debole, e la rinuncia quando le circostanze non permettano un facile adempimento del suo ideale.
Cito Michelstaedter: “E a questo lo guida il dio della philopsichìa: tu vuoi questo, ti sei impegnato a ottenerlo – che importa – cedi, quando non lo puoi, quando ci va della vita; quello che volevi qui, in fondo lo puoi aver in altra parte, in altro modo, con lo stesso piacere, senza pericolo”.

L’amore della vita ha dunque come scopo la sopravvivenza, non la realizzazione dell’uomo.
La persuasione consiste invece nel superamento delle illusioni, nella convinzione che nulla conta, che “non c’è niente da aspettare, niente da temere – né dagli altri uomini né dalle cose”. La realizzazione dell’uomo non dipende dal mondo esterno, in cui egli è “solo e diverso”, ma consiste nel “possesso di sé stesso”, attraverso il quale “possiede tutto in sé”, superando con ciò la solitudine e l’alterità del mondo. L’uomo che si sente mancare nella solitudine chiede “di essere per qualcuno”, ma l’altro gli viene meno e lo delude; l’uomo persuaso invece basta a se stesso, “vive solo di sé stesso”, e nella sua autorealizzazione non teme la morte, perché “la morte nulla [gli] toglie; poiché niente in lui chiede più di continuare”, dal momento che niente chiede a un tempo futuro, niente gli manca e può ancora desiderare, quando la sua anima “vive libera nell’assoluto”.

La realizzazione, la libertà non possono venire che dall’uomo stesso. Scrive Michelstaedter: “Ognuno è solo e non può sperar aiuto che da sé: la via della persuasione non ha che questa indicazione: non adattarti alla sufficienza di ciò che t’è dato”. L’uomo “è solo nel deserto, e deve crear tutto da sé: dio e patria e famiglia e l’acqua e il pane”. Ognuno deve essere salvatore di se stesso, non può attendere la salvezza da altri: neanche da Dio. “Cristo ha salvato sé stesso poiché della sua vita mortale ha saputo creare il dio: l’individuo”, ma “nessuno è salvato da lui”, se non si ottiene la salvezza da se stesso.
Fin qui ho citato La persuasione e la rettorica. ma a questo proposito il discorso filosofico della tesi di laurea si collega a quello della poesia a cui Arangio Ruiz ha dato titolo “I figli del mare”. È una della ultime composizioni poetiche di Michelstaedter, scritta nel settembre 1910. Nella poesia si rappresenta la vita dei due figli del mare Itti e Senia costretti a vivere la morte dei mortali. La morte, non la vita, perché l’atteggiamento dell’uomo che si adagia nella rassegnazione, nella paura della morte, nell’accontentarsi della propria condizione, questo è morte. La philopsichìa diventa qui il richiamo del focolare domestico:

Ritornate alle case tranquille
alla pace del tetto sicuro,
che cercate un cammino più duro?
che volete dal perfido mare?
Passa la gioia, passa il dolore,
accettate la vostra sorte,
ogni cosa che vive muore
e nessuna cosa vince la morte.
Ritornate alla via consueta
e godete di ciò che v’è dato:
non v’è un fine, non v’è una meta
per chi è preda del passato.
Ritornate al noto giaciglio
alle dolci e care cose
ritornate alle mani amorose
allo sguardo che trema per voi
a coloro che il primo passo
vi mossero e il primo accento,
che vi diedero il nutrimento
che vi crebbe le membra e il cor.
Adattatevi, ritornate,
siate utili a chi vi ama
e spegnete l’infausta brama
che vi trae dal retto sentier.

Ma a questo invito alla rassegnazione Itti, il persuaso, il salvatore di se stesso, ribatte che la morte temuta dai figli della terra non è l’abbandono, ma il coraggio: “il coraggio di sopportare / tutto il peso del dolore”, di navigare verso il mare libero, di non adeguarsi solo per non perdere comodità e affetti. Il porto, il rifugio dei figli del mare è la furia dello stesso mare in tempesta “quando libera ride la morte / a chi libero la sfidò”.

Perché “chi vuole fortemente la sua vita, non s’accontenta”, nel timore della sofferenza, dell’apparente piacere che non elimina, ma solo nasconde il dolore, bensì affronta e sopporta il dolore stesso, accettandone interamente il fardello. “Egli deve avere il coraggio di sentirsi ancora solo, di guardar ancora in faccia il proprio dolore, di sopportarne tutto il peso.
Una filosofia pessimista, senza mondo e senza Dio, anche se Michelstaedter è attratto dalle esperienze religiose, specie da quelle estranee alla sua cultura di ebreo non osservante: cita infatti, oltre all’Ecclesiaste, massime di ascetismo buddista e il Nuovo Testamento. La sua filosofia trova significato nella volontà di potenza, nella sete di assoluto, nella realizzazione di sé non nonostante ma attraverso il peso del dolore, della solitudine, della consapevolezza della morte. Il filosofo non teme la morte e non la sceglie: la supera, vive con la stessa intensità ogni attimo e quindi è andato oltre la morte stessa. Quando tutto gli appartiene, anche la morte non gli è estranea, e una volta accettata questa esperienza, niente resta che possa incutere timore, e il persuaso può dire nietzschianamente, a spiegare la sua noncuranza delle cose contingenti: “cosa potrebbe capitarmi ancora che non fosse già cosa mia?”. Ma il filosofo, il saggio, l’uomo superiore, il persuaso, alla fine resta, per dirla con le parole di Michelstaedter, solo, lontano, diverso. Il suo non accontentarsi, non risparmiarsi, se lo innalza rispetto agli altri uomini lo allontana anche irrimediabilmente da loro.

E il punto debole della pratica della persuasione consiste proprio nella difficoltà di accettare questa assoluta solitudine morale e mentale. È possibile farlo, anche se alcuni si rifugiano nella pazzia: ma è molto duro farlo a 23 anni.
Si è parlato per lui di “suicidio filosofico”, è parso avvincente ipotizzare un concetto filosofico che si traduceva in realtà: ma Michelstaedter teorizza non il suicidio, non la scelta della morta quanto la sua indifferenza. Per il saggio vita e morte si equivalgono, sono uguali, e se la morte niente toglie, niente può anche dare. La morte, quando viene, è un fatto per così dire accidentale: indifferente. L’essenziale è che non sia temuta o subita, ma affrontata.
Sia nella Persuasione che nel Dialogo della salute Michelstaedter compie chiaramente una scelta di vita e non di morte; e anche in precedenza, nel 1906, in una recensione a L’età critica di Max Dreyer criticava il suicidio di un giovane infelice come l’azione di un debole che si era ucciso per non poter sopportare il dolore, commiserandolo ma concludendo: “che c’importa?”. Eppure, nel privato, qualche inclinazione alla morte si trova: nel cosiddetto “questionario fiorentino”, una sorta di test del marzo 1906, alla domanda “a quale età vorreste morire” rispondeva “Subito!!”; e prima di trovare nella furia del mare il coraggio che libera dall’illusoria philopsichìa aveva annotato nel suo taccuino, nell’autunno del 1905, con ben più pessimistico atteggiamento: “L’Arno violento dalle onde gialle, come ci simboleggia bene la vita, la vita eternamente fangosa. Invano le onde s’alzano, si ribellano, lottano con disperata energia rabbiosamente, la corrente le trascina inesorabile”.
Già allora, a 18 anni, la vita gli appariva come lotta, anche se la persuasione non era ancora delineata, anche se il risultato gli appariva una sconfitta.

Essenziale resta dunque affrontare la vita, non accontentarsi, non risparmiarsi mai, non adagiarsi. Il possesso di sé non può mai essere definitivo, ma si conquista momento per momento, attimo per attimo.