La figura
Biografia
Carlo Michelstaedter nasce a Gorizia il 3 giugno 1887 e muore suicida per un colpo di rivoltella, sempre a Gorizia, il 17 ottobre 1910. In quei brevi ventitré anni di vita, o meglio nell’arco dei suoi ultimi cinque anni, elabora la tesi di laurea La persuasione e la rettorica e affianca agli studi universitari la composizione di saggi, racconti e poesie. Inoltre, disegna e dipinge. Sembra l’attività di un giovane d’ingegno che non ha ancora scelto il campo a cui dedicarsi completamente; e invece diventa il dare tutto se stesso, il mettere negli scritti il proprio “sangue incontaminato”, quando la fiamma a cui aveva attinto tutta la sua energia diventa tanto ardente da bruciarlo.
È l’ultimo dei quattro figli di Alberto Michelstaedter ed Emma Luzzatto Coen: Gino (1877-1909, Elda (1879-1944), Paula (1885-1972) e Carlo. Carlo Raimondo (Ghedalià Ram) è il nome che gli viene imposto. Della sua infanzia sappiamo poco: la sorella Paula lo ricorda come un bambino pauroso del buio e dell’altezza, ostinato e per nulla disposto a chiedere scusa per qualche mancanza. Frequenta lo Staatsgymnasium senza eccellere particolarmente: non figura mai tra gli studenti che ricevono a fine anno la menzione d’onore, e nel certificato di maturità la sua condotta viene giudicata “poco confacente (“minder entsprechend”) per aver disturbato frequentemente e intenzionalmente lo svolgimento delle lezioni nel corso dell’anno. All’esame di maturità dichiara di voler seguire gli studi di diritto, ma si iscrive alla facoltà di matematica dell’Università di Vienna: non frequenta però le lezioni e nell’autunno del 1905 si stabilisce a Firenze, iscrivendosi all’Istituto di Studi Superiori. Sono anni di studio e di soddisfazioni, ma anche di dispiaceri. Cerca di entrare nella redazione di qualche giornale, ma pubblica solo tre articoli sul “Corriere friulano” diretto dalla zia Carolina Luzzatto (e uno di questi a sua insaputa, tratto da una lettera scritta ai familiari) e uno sul “Gazzettino popolare”. Si offre anche come traduttore dal tedesco e dal francese, ma senza molto successo.
Il rapporto intellettuale e con ogni probabilità anche sentimentale con una signora russa residente a Firenze, Nadia Baraden, si conclude bruscamente con il suicidio di questa; il successivo progetto di fidanzamento con una compagna di studi, Iolanda De Blasi, viene troncato sul nascere per l’opposizione della famiglia Michelstaedter; il fratello Gino muore a New York in circostanze non chiarite che fanno parlare di suicidio. Ha problemi di salute non seri ma che lo irritano, attivo com’è. Alla visita di leva, nonostante tutti i suoi sforzi per farsi riformare provocando una momentanea tachicardia, viene dichiarato “tauglich” (abile), ma ancora molti anni dopo la sua morte in ambienti goriziani si attribuisce il suo suicidio alla consapevolezza di una grave malattia. Sono voci senza conferma, ma che si tramandano negli anni.
Nel giugno 1909 ritorna definitivamente a Gorizia. Lavora alla tesi di laurea: è legato sentimentalmente a un’amica di Paula, Argia Cassini, pianista di talento, dalla forte personalità, a cui dedica le poesie “A Senia” e “I figli del mare” e che resterà poi fedele alla memoria di lui, senza indulgere a sentimentalismi, ma facendo parte della resistenza e finendo deportata ad Auschwitz.
Carlo lavora accanitamente alla tesi nell’estate del 1910 e nel caldo inizio d’autunno, teorizzando una filosofia della persuasione, del superamento delle illusioni offerte dalla non-filosofia, la rettorica. L’uomo schiavo della rettorica è infatti vittima di una persuasione illusoria, attraverso la quale viene indotto a soddisfare i suoi bisogni e i suoi desideri e adattarsi alla vita. La “philopsichia” (amore della vita), che Michelstaedter chiama anche dio del piacere, inganna l’uomo, facendogli credere di poter ottenere quello che desidera – il conseguimento del piacere, il soddisfacimento dei propri bisogni, lo stesso perseguimento di un ideale – fuori si sé. L’istinto che è alla base della “philopsichia” è la sopravvivenza dell’uomo, non la sua realizzazione: fa sì che egli si adatti, che sfugga al rischio e al dolore, amando irrazionalmente la vita e provando paura della morte. La persuasione invece porta al superamento delle illusioni, alla constatazione che né dagli altri uomini né dalle cose ci si deve aspettare nulla – e allo stesso modo non si deve temere nulla. Chi raggiunge il possesso di se stesso possiede la libertà assoluta: libertà dai bisogni quotidiani, dai desideri e dai timori. Il dolore allora non è subìto, ma accettato con coraggio; la morte non è temuta né desiderata, ma è disarmata, come disarmata è la vita, davanti a chi non chiede la vita e non teme la morte, a chi dà tutto e non chiede niente, a chi non si accontenta, non si adatta, non si adegua; a chi sceglie con coraggio la strada difficile della filosofia, della solitudine, del possesso di sé mai definitivo ma da conquistarsi ogni giorno; a chi si salva da solo. E Carlo è proprio solo negli ultimi giorni: la famiglia è in villeggiatura in collina, al Rafut, mentre lui lavora alla tesi, mette la sua anima nei fogli, li ricopia aiutato dall’amico Nino Paternolli e dal cugino Emilio Michelstaedter. Il 17 ottobre la tesi è finita. Proprio in quel giorno la madre Emma compie cinquantasei anni.
Pare che i Michelstaedter usassero scambiarsi i doni e festeggiare le ricorrenze la sera della vigilia. Carlo la sera del 16 ottobre resta nella casa di città, tutto preso dal lavoro. Il regalo per la madre è pronto: un piccolo quadro a olio dipinto da lui, un raggio di sole che si fa strada attraverso un cielo coperto di nubi: sul retro ha scritto la significativa frase “E sotto avverso ciel – luce più chiara”.
Poche settimane prima madre e figlio si erano scambiati delle lettere toccanti. La madre vedeva il figlio migliore degli altri giovani, ma solo e scontento; lui le prometteva un futuro migliore, la realizzazione della vita dopo tanto studio, sempre nello stretto rapporto con lei, cui niente del figlio era estraneo. Invece Emma si sente dimenticata nel giorno della sua festa. Scende la collina del castello, rimprovera aspramente Carlo. “Fammi il regalo di non arrabbiarti”, gli aveva scritto ai primi di settembre. Ma questa volta non trova le parole giuste, e il figlio reagisce con uno scatto di collera.
Dopo, se ne pente. Viene Emilio per proseguire il lavoro di trascrizione, ma Carlo gli chiede di tornare più tardi. Ha appuntamento per una passeggiata con Argia nel pomeriggio, ma non aspetta che venga pomeriggio. Rimasto solo, non affida alla carta nessun messaggio. Non chiude neanche la porta a chiave. Ha una rivoltella, tolta a un amico per evitare che potesse compiere un gesto inconsulto. Si spara.
Sono le due del pomeriggio. È una giornata molto calda, quasi estiva. I vicini sentono il colpo, ma non ci badano. Sarà Emilio a trovare il cugino due ore dopo.
Carlo spira prima di notte, senza riprendere conoscenza. Da quel momento vive il ricordo, vive la carta scritta al suo posto.
leggi Per un’interpretazione fisica di un suicidio metafisico.pdf di Lorenzo Teodonio, Francesco Valle e Mauro Missori (CNR, Istituto dei Sistemi Complessi)